PRIMOGENITO

 

Aveva compiuto ventuno anni e non aveva mai dovuto risolvere un vero problema fino ad allora, ci avevano sempre pensato i suoi genitori, come fecero ancora ristrutturando il vecchio appartamento per loro e lasciando che lo  usassero senza neanche pretendere un affitto.

Ma era certa che avrebbe pensato lui a lei.

Sofia lavorava, ma lasciava che fosse lui a decidere qualsiasi cosa, “sapeva” che doveva essere l’uomo a preoccuparsi della gestione familiare.

I primi anni si  divertirono alquanto, quello che lei non aveva potuto fare prima. E le era piaciuto.

La loro casa era diventata il ritrovo per gli amici, e questo le faceva piacere, voleva dire che stavano volentieri in loro compagnia.

Il fine settimana solitamente andavano a ballare o si faceva comunque quello che voleva lui, lei si adeguava.

Sofia si è sempre annullata a tal punto, per lui, che non aveva dei gusti suoi, dei desideri suoi, quello che voleva lui a lei bastava.

Ma ben presto si stancò di questa vita, voleva progredire con il loro rapporto.

Anche se non aveva avuto tanta libertà durante l’adolescenza si accorse presto che il divertimento era una cosa effimera e soggettiva. Si era stufata delle discoteche, della gente a casa sua ogni giorno. Voleva creare una famiglia, voleva che lui iniziasse a dedicarsi ad un progetto a due, a costruire qualche cosa per lei e lui.

Per questo ci si sposa solitamente, mica per andare in discoteca o poter far tardi con gli amici. Forse si era affrettata a sposarsi anche perché tutte queste cose con i suoi genitori non le poteva fare, comunque, quando l’aveva deciso, l’intenzione era quella di formare una famiglia.

Gli altri potevano starci, ma come in tutti i rapporti di coppia importanti, dovevano essere una compagnia a richiesta ed ogni tanto.

Ed ecco i primi problemi.

E Sofia iniziava a capire cosa volessero dire i suoi genitori e quei pochi amici quando dicevano “non è un un uomo con cui creare una famiglia”. Lei non gli bastava,  lui aveva sempre bisogno di altro per stare bene.

Capì rapidamente che l’unica cosa che li aveva tenuti insieme in quegli anni era la voglia di divertirsi ma a lei quella era passata e quindi si ritrovarono presto con ben poco in comune.

Viaggiavano ormai su due strade diverse.

Sofia era cresciuta, voleva progredire, lui era rimasto un ragazzo, un eterno Peter Pan, sempre in cerca di quel non so che, ricerca che finiva sempre nello stesso modo, a frequentare sempre le stesse persone, a fare sempre le stesse cose.

Era una vita immobile, addirittura monotona ormai, come si può crescere e migliorare così?

Quando Sofia iniziò a pensare seriamente di separarsi ed era sempre più sicura di aver fatto un errore sposandolo, rimase incinta del suo primo figlio.

Era felice. Ecco il cambiamento. Ecco la crescita del rapporto verso quello che voleva, una famiglia.

Il cambiamento sarebbe avvenuto per forza. Avrebbero avuto un bambino e lui sarebbe cambiato, se non per lei, almeno per il loro cucciolo.

Nel frattempo suo marito aveva iniziato a seguire la politica ed a partecipare sempre più attivamente a riunioni ed eventi inerenti al partito “da lui” prescelto.

Sofia naturalmente si era adattata anche a questa scelta e partecipava ai raduni, alle riunioni e alle feste del partito, che aveva fatto anche suo (alla faccia dell’annullamento personale) fino a quando fu possibile.

Era felice anche di questo, meglio la politica che la discoteca. Nella vita ci sono dei percorsi da fare, a seconda dell’età, secondo il suo punto di vista, e determinati divertimenti erano uno step che avrebbe dovuto essere superato già da tempo.

Con l’avanzare della gravidanza Sofia poté partecipare sempre meno agli eventi del partito, la stanchezza ormai prendeva spesso il sopravvento. Ma lui non poteva mancare, guai a saltare una riunione, neanche fosse il Presidente del Consiglio.

Questi incontri politici ed impegni si intensificarono con l’aumentare della sua stanchezza e l’avanzare della gravidanza.

Iniziò presto a dubitare delle frequenti riunioni, ma soprattutto della durata di queste, dato che il “suo lui” rientrava spesso a notte inoltrata.

E la sua gravidanza diventò un inferno.

Lui non c’era mai e lei soffriva per queste sue poche attenzioni.

Avrebbe voluto che almeno si preoccupasse di lasciarla serena, invece contribuiva non poco a creare situazioni di tensione continue.

Suo figlio avrebbe dovuto nascere a fine agosto ma una mattina del giugno del 1994, nel togliere la teglia dal forno per controllare la cottura del coniglio, ebbe un distacco di placenta.

Sangue ovunque. Lascio immaginare lo spavento.

Fortunatamente non era sola, un suo carissimo amico era casualmente passato a trovarla. Per fortuna c’era lui, che la portò all’ospedale e si diede da fare per avvisare tutti, perché il suo bravo maritino, dalle 11,00 del mattino quando successe il tutto, si presentò in ospedale appena prima che la portassero in sala operatoria per un cesareo urgente, dopo le 16,00 del pomeriggio.

E così nacque il suo cucciolo, ed era proprio piccolo, pesava 1.100 Kg, non era ancora di 30 settimane, purtroppo. Suo marito le disse che doveva solo crescere, ma stava bene.

Avrebbe scoperto presto che non era così.

Non avendolo visto in sala operatoria perché sotto anestesia, chiese di vederlo, ma le fu negato, prima doveva riprendersi dall’operazione subita. Fece il possibile per alzarsi, come le avevano detto (quando riuscirà ad alzarsi la porteremo dal suo bambino) ma siccome ancora trovavano varie scuse, fece un giro nell’atrio, incontrò il Primario del Reparto di Neonatologia e gli chiese di suo figlio.

“Gravissimo” le rispose.

Ricorda ancora oggi il dolore che provò in quel momento.

Come se avesse preso una coltellata.

Chiamò piangendo suo marito e gli chiese come mai le aveva mentito e aveva detto che il bambino stava bene e doveva solo crescere. Disse che l’aveva fatto per tutelarla, naturalmente.

E naturalmente, dato che era depresso per le condizioni del bimbo quella notte andò in giro in cerca di svaghi.

Lei, in preda alla disperazione, si alzava malgrado il taglio del cesareo, lo chiamava dal telefono nell’atrio del reparto e lui non rispondeva. Eppure il cellulare l’aveva acquistato proprio per le emergenze…ma forse la moglie che stava male al pensiero che suo figlio stava rischiando la vita non era abbastanza urgente per lui.

Per certi uomini tutte le scuse sono buone per ricercare il divertimento, che poi si ripete sempre nelle stesse azioni distruttive, con ritmica cadenza, sempre uguali. E lo chiamano essere diversi, sapersi divertire.

Se sono felici lo fanno per festeggiare, se sono tristi lo fanno per dimenticare. Insomma ogni situazione ed ogni scusa sono buone per ricadere sempre nelle stesse azioni, che non solo non li fanno divertire ma il giorno dopo li fanno sentire delle merdine (scusate ma un altro termine non avrebbe espresso bene ciò che intendo) e creano ulteriori problemi.

Si ripromettono di cambiare, ma non saprebbero come vivere cambiando le loro abitudini.

Mi sono resa conto, col passare del tempo, che non sanno vivere.

E quindi tutto si ripete ciclicamente all’infinito.

Una frase che ho sentito in un film, credo sia di Bob Dylan, descrive in modo corretto questa filosofia di vita, se così si può chiamare, forse meglio filosofia di autodistruzione  “Chi non è impegnato a vivere è impegnato a morire”.

Insomma, quella notte Sofia iniziò a chiedersi con chi si fosse sposata. Quale “uomo” potesse andare a divertirsi sapendo che il figlio stava morendo e la moglie stava soffrendo fisicamente e psicologicamente, ed invece di starle accanto o di aiutarla facendosi almeno trovare quando lei avrebbe avuto bisogno, le dava altre preoccupazioni.

Le sembrò una tortura, uscire dall’ospedale senza suo figlio, non era così che se l’era immaginato.

A casa senza quella “cesta”, come si chiamavano le “portantine per i neonati” a quei tempi. Non era quella la scena vista e rivista nella sua mente durante la tanto sospirata attesa.

Andavano a trovarlo almeno una volta al giorno.

In Neonatologia si entrava con camici, guanti, cuffie, per vederlo in mezzo a tutti quei tubi che lo tenevano in vita.

Poi Sofia tornava a casa con la sua solitudine, la sua sofferenza e la speranza di poterlo rivedere ancora il giorno dopo. Si perché ogni tanto qualcuno dei “compagni di viaggio” di suo figlio verso la vita, si è perso per strada e non ce l’ha fatta, e lei temeva che anche lui non ce l’avrebbe fatta.

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